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Intervistiamo Raffaella Cardarelli, co-founder di AlbaChiara

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Una delle docenze più interattive della sedicesima edizione del Master SBS è stata quella di Raffaella Cardarelli e Roger Mitchell, fondatori di AlbaChiara, agenzia di consulenza operante nella sport industry.

Raffaella, prima di iniziare questa avventura professionale insieme al marito Roger, ha lavorato in prestigiose aziende legate al mondo dello sport, tra cui il colosso Philipp Morris.

Oltre alla brillante docenza, Raffaella ci ha dato l’opportunità di intervistarla, offrendoci un punto di vista ancora più personale su varie tematiche legate al mondo dello sport e del lavoro.

A nome della redazione e di tutti i masterini, un profondo ringraziamento per questo bellissimo contributo.

D: Uno degli esercizi più interessanti delle vostre lezioni è stato quello sulla definizione di leadership. In sostanza, avete chiesto ad ognuno di noi di individuare la propria personalità sulla base dei modelli presentati: D (dominante), I (influente), C (coscienzioso), S (stabile)?
E lei? Con quale tipologia di leadership sei identifica maggiormente? Perchè?

“Sono nata “I”, ho lavorato sodo per acquisire la precisione e la conoscenza approfondita di una “C” e sono diventata una “D”. Sembra uno scherzo, ma è la mia storia, in breve. L’evoluzione della mia personalità riflette le diverse tappe del mio viaggio professionale e personale. 

Sin da giovanissima, ho avuto facilità a comprendere le persone che incontravo, a empatizzare con loro e ad ascoltarle. Questo mi ha aiutato enormemente a costruire rapporti interpersonali profondi e duraturi. 

Per affermarmi negli studi e nel lavoro, tuttavia, ho capito presto che dovevo abbinare le mie abilità umane alla profondità della conoscenza. Questa magica combinazione “I-C” mi ha portata a distinguermi in tutti i campi in cui mi sono cimentata. E mi ha anche aiutata a prendere decisioni migliori, perché maggiormente consapevoli e informate. 

Quando poi ho iniziato ad avere responsabilità più ampie in azienda, dovendo anche dirigere la mia squadra di lavoro, ho dovuto sviluppare maggiore assertività e auto-consapevolezza, caratteristiche tipiche della personalità D.

Ho imparato a guardare le cose da una prospettiva molto più ampia, a sviluppare una visione strategica, a scegliere le persone cui delegare compiti e responsabilità. E ho finalmente imparato che, da soli, si va magari più veloci, ma non tanto lontano. Le persone intorno a noi, nel lavoro e nella vita, sono la cosa più importante. Davvero”

D: Che cosa ricorda con piacere dell’esperienza lavorativa in Philipp Morris? Ha qualche aneddoto interessante da raccontarci?

Annovero i miei anni in Philip Morris tra i più belli della mia carriera professionale, perché ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo di talenti fuori dal comune, in un periodo d’oro, quando PM era considerata l’università del Marketing. 

Era difficile essere assunti. Inviai il mio CV con una lettera di accompagnamento in cui spiegavo perché ammiravo tutto quello che facevano in ambito di comunicazione. Dalle diversificazioni – come la linea di abbigliamento Marlboro Classics – alle sponsorizzazioni sportive – come quelle in Formula 1, nel motorsport, nel tennis e nella vela. Conclusi spiegando, umilmente, come avrei potuto aggiungere valore io, unendomi alla loro squadra.

Con mia grande sorpresa, mi risposero quasi subito, invitandomi a un primo colloquio conoscitivo. Volai in Svizzera, a Losanna e, in ascensore, incontrai per caso un certo John Hogan, colui che porto’ la Marlboro in Ferrari. John era un visionario assoluto, oltre che una persona squisita, che è purtroppo venuta a mancare proprio un mese fa. Mai avrei potuto pensare che, dopo sei mesi di colloqui che sembravano non finissero mai, avrei avuto il privilegio di essere scelta e di lavorare anche con lui.

Ecco, piuttosto che parlarvi di Michael Schumacher e di Max Biaggi, preferisco onorare la figura di John. Un grande professionista, uno di quelli che hanno determinato il fenomenale successo di questi atleti e delle loro squadre.
I talenti, nello sport e oltre, per quanto grandi siano, non vanno lontano senza il duro lavoro di chi sa educarli, gestirli, metterli nella squadra giusta, col management giusto e i budget necessari per essere i migliori da ogni punto di vista.
Oltre a John, ho avuto la grande fortuna di incontrare molti altri Leader in PM. Hanno tutti contribuito alla mia crescita personale e professionale in modi di cui, sono certa, neanche loro sono consapevoli

D: Quale è stato il progetto più sfidante e stimolante a cui lei ha partecipato da quando ha fondato AlbaChiara?

Il primo, mi viene da dire, è stato fondare proprio AlbaChiara. Il mio primogenito aveva appena 3 mesi, quando presentai alla Camera di Commercio britannica il progetto imprenditoriale per accedere a un finanziamento destinato a meritevoli giovani imprenditrici.
Non solo lo ottenni, ma riuscii da subito ad attrarre i primi clienti, dettando i tempi e i modi di erogazione del mio lavoro, come avevo sognato di fare per riuscire a restare accanto a mio figlio piccolo. È stata una grande sfida vinta, quella di non rientrare in azienda da dipendente, per poter trovare così il giusto equilibrio tra la famiglia e il lavoro. Non sempre è stato possibile, vista la responsabilità di dover crescere un’impresa da zero e una giovane famiglia. Ma non ho mai pensato di tornare indietro e, fino ad ora, direi che il piano ha funzionato molto bene! 

Un’altra grande sfida, che mi ha impegnata in qualità di CEO, in prestito per 5 anni, è stata quella di trasformare in realtà, l’idea di business di un imprenditore norvegese.
Rendere semplici e belli, prodotti tecnologici di uso comune. Mi sono trovata a dover focalizzare l’idea della startup. Ideare il piano di business, sviluppare il marchio, trovare gli uffici in Svizzera, creare la squadra da zero. Sviluppare prodotti tecnologici insieme a esperti del settore, viaggiare mezzo mondo per promuovere il marchio e vendere, vendere, vendere.

La considero una delle esperienze più massacranti della mia carriera, perché l’impegno che una startup richiede è veramente notevole. Non essendo mia, la responsabilità che sentivo era anche maggiore!

Inoltre, voler innovare un’industria statica e ancorata a vecchi modelli come quella del design, ha presentato sfide non indifferenti. Sono tuttavia riuscita nel mio intento: lasciare all’imprenditore un business sano, fresco, innovativo, conosciuto e riconosciuto internazionalmente. Un gruppo di ottimi professionisti, una cultura d’azienda invidiabile e una strategia di sviluppo futuro che ho visto poi realizzare con soddisfazione.
E ho lavorato con uno dei migliori industrial designer viventi, il grande Jasper Morrison, da cui ho imparato di tutto e di più.

D: Dopo quattro giorni di lezione, in cui ci avete messi alla prova con role plays e workshops, quali sono, secondo lei, le skills su cui i giovani, che si apprestano ad iniziare una carriera nel mondo dello sport system, devono indubbiamente lavorare e migliorare?

Ritengo le competenze che elenco qui sotto le più carenti tra i giovani secondo la mia esperienza professionale. Ci vuole tempo, impegno e auto-consapevolezza per diventare dei veri pro.
Tuttavia, credo che la vostra generazione, proprio perché provata come nessun’altra da dopo l’ultima guerra mondiale, abbia un’occasione irripetibile per cambiare un sistema socio-economico che, evidentemente, non ha funzionato.

E lo potrà fare facendo leva sui valori di inclusione e sostenibilità che vi rappresentano e sviluppando doti umane e manageriali che, purtroppo, non si insegnano ancora nelle scuole e nelle università.

Avanzate abilità interpersonali e EQ (intelligenza emotiva), per riuscire a sviluppare il modello B2C (business to consumer) al meglio, influenzando e collaborando con tutti gli stakeholder del sistema sportivo, educandoli alla effettiva comprensione delle nuove esigenze del fan. 

Avanzate abilità di comunicazione scritta e orale e di negoziazione/vendita, per valorizzare e motivare i talenti con/per cui lavorerete e perché, anche le idee più’ geniali, se non spiegate efficacemente, rischierebbero di non vedere mai la luce.

Curiosità, per poter saper molto e di tutto, sullo sport e, soprattutto, fuori dallo sport. Studiare, per esempio, perché e come stia cambiando l’industria dei media, offre spunti interessanti per poter leggere o prevedere fenomeni del mercato sportivo altrimenti inspiegabili. Punti di vista privilegiati, perché alternativi, come li avevano i grandi “Polymath” del Rinascimento italiano, che risolsero problemi complessi, proprio perché li guardavano in modo diverso.

Data science: la comprensione dei fenomeni sociali e dei bisogni del consumatore parte dalla comprensione dei big data e, soprattutto, dallo sviluppo delle insights successive che devono essere personali e “altre”.

Abilità di analisi finanziaria. “Follow the money” e capirai il sistema, i suoi punti di forza e le sue falle. Capire i numeri dietro un’azienda (sportiva) o un ecosistema è una fonte inesauribile di idee per migliorare la produttività e la marginalità di ogni business.

Resilienza, per non arrendersi mai, qualsiasi tipo di ostacolo ci aspetti.

Imprenditorialità, per innovare lo sport senza se e senza ma, in modo sostenibile, inclusivo e orientato al fan.

Adattabilità, per riuscire a cambiare agilmente il modo in cui si aggiunge valore a un’azienda e non essere, così, mai sostituiti da un un robot”

Ultimo consiglio che ci tengo a darvi: non abbiate paura di sbagliare.
La Storia insegna che dall’errore sono nate scoperte mirabolanti. Qualche esempio? Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America, Alexander Fleming e la penicillina, John Pemberton e la Coca Cola, Will Keith Kellogg e i Cornflakes, e tanti, tanti altri.
Il fallimento è parte integrante del successo. Non scordatelo mai!” 

Francesco Munaron

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